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Sommersi

Un punto di vista assolutamente personale

CHE RISPOSTA AL NOSTRO TEMPO?

Arte e società dell'intrattenimento...
Osare di pensare in grande...
Agire ancora, prima di decidersi a scomparire.



Domandarsi una risposta significa immaginarsi almeno una domanda. Sono convinto che ogni singolo artista provi a rispondere singolarmente, attraverso la propria azione espressiva, alla questione del senso e del ruolo che debba rivestire l'arte nella nostra società.

La necessità di ritrovarsi insieme a dare forma ad un disagio artistico vale dunque, per ora, niente più che come banale presa di coscienza che un disagio c'è. Tanto che si pensi a livello di scelte di amministrazione locale quanto che si prenda in considerazione un progetto culturale globale di educazione al brutto (o di diseducazione al bello).

Stanco da un pezzo di lamentarmi, perché il lamento pure non è più originalità ma fastidio, mi trovo di fronte all'urgenza primaria di rispondere (ognuno per sé) alla domanda più spaventosa: perché ostinare i propri passi lungo il percorso di una ricerca artistica, in una società che impazza per l'intrattenimento?

Bella la Resistenza! Ma dopo anni di trincea l'umido fa fatica a staccarsi di dosso. Morire di reumatismi è molto meno romantico che stramazzare per una baionetta in cuore nel mezzo della battaglia. E per un artista sarebbe un gran peccato perdere un'occasione così ghiotta.

Come artista posso allora rispondere in maniera semplice e quasi infantile: non posso fare altro. Nonostante la capacità di adattamento che mi rende spendibile come operaio, commesso e cervellino da ufficio, comunque la madre verso cui sfiancato torno è pur sempre l'azione artistica.

Ho scelto l'arte fuggendo l'integrazione. Nessun percorso preordinato ti è dato se fuoriesci dalla mentalità produttiva e dal prodotto spendibile al gusto facile. Penso questo perché non vedo altri motivi al bisogno di ritrovarmi insieme ad altri artisti a discutere sul significato di un'ostinazione pericolosa.

Con sano gusto “retro” propongo dunque un manifesto. In perfetto contrasto con le stesse tendenze individualiste (indotte? dedotte? sedotte? ridotte?) scelgo di ritrovarmi insieme sotto un medesimo cappello contenitivo. Ombreggiante l'estivo ed impermeabile d'inverno.

La base di confronto è semplice. Parcellizzati secondo un lucido programma in scaglie minute, ci troviamo di continuo ad elemosinare frammenti di sostegno economico in cambio di proposte stupefacenti per l'intrattenimento del contribuente. Nessun giudizio morale, basta esserne consapevoli. Ma che ne è dell'orgoglio virile (parola che non esclude il femminile) di lasciarsi cercare? Dov'è la società che chiede all'artista il canto di cui abbisogna per non lasciarsi spegnere?

Spegnere. Questo facciamo. Ed è la cosa più stupida che ci è rimasta nella nostra incapacità di riconoscerci grandi, nelle piccole cose.

Parlo di fierezza e dell'urgenza di smettere di elemosinare orecchie per farsi intendere. Arte è voce che si alza senza permesso. È necessità. È urgenza del qui ed ora. Tutto il resto viene dopo e, orgogliosamente, sotto.

Quale spazio è rimasto dunque? Il quotidiano banale di tutti i giorni. Meraviglia! Ce n'è per tutti i gusti. È questo il luogo che ci è dato. Attorno a questo il compito di ritrovare la bellezza. Non per forza superficie, distrazione e voracità. Bellezza è anche impegno, presenza, socialità, distruzione e costruzione, spessore civile, prepotenza bambina.

Semplice è l'urgenza di un bello che resta. Il meraviglioso che non per forza stordisca. L'ebbrezza di ritrovare un ruolo che ci vede portatori di un idea più grande di noi stessi. A questo siamo chiamati. Avremmo potuto essere ben altro, altrimenti.

Ma un manifesto è proposta, non soltanto analisi di cause. Vedo allora la necessità per l'artista di riprendersi quel che si fece togliere con stupida connivenza. Riconquistare gli spazi dell'uomo. Le città, intanto, e poi il mondo intero. Con calma, piano piano, con metodica follia e inevitabile ostinazione. Trasformare il luogo del banale nell'esperienza del meraviglioso. Cosa di cui tutti, non solo i bambini o gli artisti, sentiamo il bisogno.

Un progetto ambizioso, ma così normale, in ascolto delle nostre debolezze, che sarebbe stupido non perseguire, quando sappiamo che domani ai nostri figli dovremo rendere conto di non averci nemmeno provato. Perché così è che ai nostri padri rinfacciamo oggi di averci, a un certo punto, tradito.

Federico Toso

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